“Terra nostra – terra cotta”

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Dopo gli alimentari, la merce più richiesta è il mattone.  L’ambizione di ogni famiglia è di possedere una casa propria e i mattoni girano per le nostre strade e autostrade in modo impressionante. Ma da dove arrivano questi mattoni? Dalle vicine province di Cremona, Pavia, Piacenza…

Ma c’è da chiedersi: è sempre stato così? No, infatti nel passato ogni località aveva la sua fabbrica di mattoni, più comunemente detta “la fornace“.

La più evidente era quella di Villa Fornaci, in Gessate, che ha dato il nome alla località, nella quale fa tuttora bella mostra di sé una altissima e superba ciminiera, ultima testimonianza di un’attività trascorsa. A Melzo resiste al tempo ancora la ciminiera, ultimo relitto della fornace scomparsa, locata nei pressi della cascina Colombina ed è visibile dalla strada Cassanese. A Pioltello e a Cernusco è scomparsa ogni traccia di questa attività. A Cassina de’ Pecchi la memoria dice che vi era una fornace di mattoni, di vasellame domestico e otri, a Villa Magri e Villa Quiete (detta “La Mericana”) delle quale però ora non esiste più nulla. Gorgonzola aveva la sua fornace in località “Fornasetta”, qui è rimasto solo il nome a ricordarla. C’è comunque una testimonianza ancora visibile: durante la ristrutturazione di villa Terzi a S. Agata, si è trovato un mattone con stampigliato il nome e la località della fornace: “Figini & C., Gorgonzola”. Non v’è purtroppo la data che avrebbe fatto attribuire al manufatto un’epoca precisa.

I manufatti, come dice la parola stessa, venivano fatti veramente a mano, con la lavorazione della materia prima, l’argilla, che veniva cavata dai campi circostanti la fornace, “scolturando” il terreno, cioè levando lo strato di coltura, erba e radici per uno spessore di circa 40 cm e ammucchiandolo ai margini del campo per poi ristenderlo in seguito. Si iniziava a cavare sempre da sud dell’appezzamento con vanghe e badili, gli operai asportavano l’argilla per lo spessore di 1 metro circa e la caricavano su carri a due ruote (detti “tomarelli”), che avevano la particolarità di ribaltare il carico nel cortile della fornace, senza doverlo scaricare a mano. Qui gli operai addetti, impastavano il materiale mettendolo negli stampi e dopo aver preso consistenza, veniva estratto e messo ad essiccare al sole o al coperto a seconda della stagione. Poi i singoli pezzi venivano ripresi e messi nella fornace per la cottura.

II forno era scaldato con legname della zona. La cottura risultava di migliore qualità se la legna era di essenza forte e dura, come quella della quercia, della robinia e dell’olmo, perché la temperatura raggiungeva una più alta gradazione, e la qualità del manufatto era consistente, mentre con l’impiego di legna dolce, quale il pioppo, il salice o simili, il mattone o il vasellame risultavano più fragili.

Nella fabbrica occorreva tanta manodopera, tante mani lavo­ravano e impastavano la creta per mattoni e vasi casalinghi, mani incallite dal duro lavoro e rese ruvide come gli stessi mattoni, o mani levigate dalle lavorazioni che rendevano i polpastrelli consunti e quasi sanguinanti, impasti misti di sudore e lacrime di ragazzi e ragazze avviati al lavoro prematuramente, impegnati dall’alba al tramonto, per contribuire con il loro misero salario al sostentamento della famiglia spesso numerosa e rallegrati solo al pensiero del riposo domenicale.  Molte vite affondavano le mani nella miseria del fango, nella speranza di afferrare un giorno un lembo della fortuna per trovare un buon lavoro e una vita migliore. È da questo “vissuto” e da questi “mattoni” che oggi poggiano le fondamenta delle nostre vecchie case e… del nostro presente.

(Franco Castelli)

N.B. Questo racconto lo dedico a mia suocera Lina Vannucchi, la quale orfana del padre, con la casa rasa al suolo dagli eventi bellici il fratello sotto le armi, e unico sostegno della madre, si dovette adattare per sopravvivere ad andare da giovinetta a lavorare in una fabbrica di mattoni.